La storia di Pescopagano
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LE ORIGINI, LE FONTI STORICHE E LA LEGGENDA POPOLARE
La identità storica e le origini di Pescopagano si perdono nella notte dei tempi. Alcuni reperti, rinvenuti in una contrada agricola di Pescopagano e nelle necropoli di Conza e Cairano, risalenti all'epoca neolitica, attestano che queste contrade furono popolate sin da quel tempo e con floride condizioni economiche, data la presenza, in alcune tombe, di monete e arredi vari di fattura osca, sannitica e greca. Tale presenza fu facilitata dal processo osmotico tra la civiltà autoctona e quelle dei popoli erranti, costituiti da coloni neolitici che si erano stanziati in Grecia e che si servivano di barche o piccole navi.
Trasformatisi questi in marinai si avventurarono nel Mediterraneo, navigarono lungo le coste della Grecia e arrivarono nell'Adriatico da dove si insediarono sulle coste italiane; non escluse la Sicilia e le zone costiere della Francia meridionale e della Spagna orientale. È difficile stabilire quanto durò questa fase iniziale di colonizzazione dell'Europa: certamente almeno qualche secolo. Ciò nonostante si trattò di un movimento relativamente rapido, specie se confrontato con le precedenti migrazioni dei cacciatori paleolitici e mesolitici. Evidentemente, c'era qualcosa che spingeva sempre più innanzi questi coloni e impediva loro di fermarsi troppo a lungo in un posto, in una regione. Erano praticamente dei popoli nomadi.
Questi primi agricoltori neolitici erano del tutto incapaci di rigenerare il suolo dopo alcuni anni di sfruttamento: non conoscevano i fertilizzanti ne l'irrigazione e non praticavano ancora la rotazione delle colture. Era l'esaurimento del suolo agricolo che li costringeva a spostarsi periodicamente. Molte volte si trattava di processi circolari: dopo qualche anno, gli agricoltori tornavano sui luoghi abbandonati, quando la terra ritornava fertile, e rioccupavano l'antico villaggio. Anche il costante incremento demografico costringeva queste comunità a scindersi periodicamente: una parte restava nella regione originaria, un'altra parte andava alla ricerca di nuovi territori.
L'economia neolitica europea si basava essenzialmente sull'agricoltura-allevamento e sulla pastorizia, anche se il ruolo della caccia non può essere sottovalutato e in molti casi si deve parlare ancora di economie basate essenzialmente sulla caccia, con una attività sussidiaria agricola e pastorale. Comunque, le colture neolitiche dell'Europa centrale e orientale si basarono prevalentemente sull'agricoltura, dapprima itinerante poi sedentaria; mentre in molte zone dell'Europa occidentale, nelle zone montuose e nei terreni insulari, prevalse a lungo la pastorizia o l'allevamento del bestiame.
In seguito, questi agricoltori neolirici, dalle coste italiane si internarono verso l'Appennino e, rimontando il fiume Ofanto, si stanziarono nel ridente «sito a capo della valle, ove edificarono Coza».
Furono questi agricoltori neolitici nomadi che portarono e fermarono, in questo nostro luogo, il loro culto alla Sibilla Cumea, che avevano adorato nei loro paesi di origine.
Fiumi in parte navigabili, che spesso avevano il nome delle stesse poleis, come affermano antichi geografi e scrittori, per lo più torrentizi, precipitosi durante il primo corso, per l'interrimento dei porti iniziatesi nel VI sec. a.C., finirono per impaludarsi, con le note conseguenze dell'infida malaria che nel secolo scorso mieteva il 10% di vittime l'anno.
Perciò la storia delle nostre antiche contrade o casali (poleis) comincia proprio lungo i fiumi lucani navigabili. Il fiume non è soltanto un provvidenziale serbatoio d'acqua per l'agricoltura; lungo le sue rive e sopra le sue acque la vita era intensa; si trasportavano persone e derrate, i pescatori gettavano le reti o fiocinavano, cacciatori si addentravano fra le paludi per catturare gli animali acquatici. E gli scambi erano naturalmente quelli del baratto, sistema proprio delle società agricole locali in competizione tra di loro e con l'ambiente per la sopravvivenza.
Il problema delle strade cominciò a porsi per le popolazioni dell'età che seguì la fase dei cacciatori cavernicoli o capannicoli. Si ha così notizia di strade da percorrere solo a dorso di mulo o con carri leggeri (« rhaedae »), di soste notturne (« mensiones ») e anche di qualche «iter longum» tra due stazioni.
Da Plinio si apprende degli 11 o 12 popoli che vivevano in Lucania, «vicatim» dice Livio (XXV, 16. 10 r 14) e cioè per sparse borgate rurali o casali. I coloni ellenici che si spinsero nel retroterra delle coste, regolando il corso dei fiumi, accrebbero la superficie dei terreni alluvionali da sfruttare a pascoli e per la coltura dei cereali; dall'argilla ricavarono i famosi vasi a figure rosse che resero celebre il ceramista pestano Asteas e il velino Simonide.
Tutte queste attività vengono confermate dalle monete rinvenute nelle necropoli delle poleis.
L'organizzazione dell'agricoltura di quell'epoca, e l'esistenza del latifondo in Lucania, largamente e punitivamente espropriato dopo la guerra annibalica, come pare possa desumersi dal famoso marmo di Polla (CIL, I, 638) - accenna alle lotte d'interessi tra aratori e pastori - , sono indirettamente attestate da Giovanale (VIII, 180) che ne ricorda gli «ergastula di schiavi». Della locale piccola proprietà e di fitti a lunga scadenza, una sorta di enfiteusi, si apprende dalle celebri Tavole di Eraclea, simboli dell'antica grandezza lucana, trovate nell'anno 1732 da un aratore, nel letto della Salandrella, attribuite ad un periodo che va dal 331 al 278 a.C., incise in bronzo e scritte in lingua greca. Descrivono le leggi che guidavano la vita dei Lucani, le condizioni agrarie, le isole del fiume Agri ed alcune consuetudini della città. Ancora, i frammenti marmorei di Teggiano e Buccino informano (CIL, 290 e 407) dei canoni in valuta o in natura -frumInfine la Tavola di Banzia (attuale Banzi) del II sec. a.C., scritta in lingua Osco-Latina e rinvenuta nel 1790, dà notizie del censo e della vita gerarchica di quella città. Si apprende -scrive Ebner- delle magistrature locali nel I secolo a.C., cioè del «meddis» («preactor»), capo militare, politico e religioso della città-stato e del «kambennion», una specie di consiglio senatorio.
Questo paesaggio agrario e di lavoro artigianale riguardava più le zone costiere e il loro entroterra, dove prosperavano le «poleis» elleniche; mentre l'interno appenninico della Lucania era rappresentato da terreni coperti di boschi, di selve, di pascoli e di incolti improduttivi, dove il lucano antico, come del resto anche l'odierno, riusciva a ricavare solo il necessario per la sopravvivenza. Maggiori erano, invece, le risorse con la pratica della pastorizia di cui si legge in Lucilio, Calpurnio e Orazio.
I coloni, come abbiamo già accennato, erano popoli nomadi o nomado-agricoli, le cui tribù, avanzando, spingevano sempre più avanti le precedenti. Limitati però sempre ad un numero fisso di presenti, furono costretti ad eliminare i nati in soprannumero e i vecchi, inizialmente con l'uccisione, e, in seguito, con la concessione di allontanarsi dalla terra natale e di andare alla ricerca di una nuova patria sotto la guida propiziatrice degli Dei.
L'emigrazione avveniva in primavera ed assumeva il valore di «Sacra espansione». Da qui l'origine delle «primavere sacre», della frase romana «sexagenari de ponte» e l'uso di denominare, con aggettivi diminuitivi dal nome di base, ogni nucleo di espulsi. Fu in questo modo che una forte colonia, quella dei Lucani, si staccò dai Sanniti prima, e dai Marsi, loro alleati, successivamente, e venne a stabilirsi in quella regione che era stata civilizzata dagli Enotri.
Così i differenti nomi di Conia, di Enotria, di Morgesia e d'Italia scomparvero, dando origine al nome di Lucania dopo che gli antichi abitatori rimasero distrutti o discacciati dalla suddetta colonia Sannitica.
L'epoca della sacra espansione lucana non ci è data con sicurezza dalla storia, ma, attraverso autorevoli supposizioni (V. Antonini: Lucania; Niburhr: Storia Romana), la si fa ascendere avanti la fondazione di Roma. Qualcuno ha supposto il quinto secolo prima dell'Era volgare.
Della conquista e della resistenza alla massiccia penetrazione romana -scrive Ebner- nel luogo è testimonianza nelle fondazioni di città, nei relitti linguistici, nel ricordo di congiure. Le bellicose popolazioni dell'interno della Lucania, specialmente i pastori che, pur vivendo isolati tra i monti per la maggior parte dell'anno, erano abituati a scendere al piano ai primi dell'inverno (Varrone, «de re rustica», II, I. 16, III, 17. 9), non potevano di certo accogliere -osserva Ebner- di buon grado il progressivo affluire di colonie di veterani che, oltre a determinare una più larga latinizzazione della regione, con le centuriazioni sottraevano ad essi i migliori pascoli per i loro armenti.
«Furono proprio i pastori a crescere sensibilmente a seguito delle incursioni barbariche, da Alarico a Zottone, quando le popolazioni scampate alla fame, alla peste, alle guerre, furono costrette ad abbandonare coste, valli e colline per cercar rifugio tra i monti. Di qui il sorgere di altri villaggi nell'interno montuoso e in luoghi dominanti, ma sempre distanti l'uno dall'altro, per cui i rapporti umani, determinati dall'insopprimibile istinto di socievolezza, finivano per essere saltuari, limitati al solo incontro nel corso di pellegrinaggi ai santuari».
Furono la peste, le invasioni barbariche e, in più, il terremoto del 990, a far abbandonare alla comunità la vallata di Conza, unitamente a quelle dei casali, e cercare rifugio intorno al castello o rocca di Pescopagano, come luogo sicuro, montuoso e dall'aria salubre e benigna, dove, inoltre, era più facile difendersi. Questo sito, già durante le invasioni bizantine o barbariche, «aveva dato ricetto agli abitanti dei vari casali, innanzi descritti, sulle rupi del castello, fornendo così un aggregato urbano notevole: «Castrum Petra Paganae», oggi Pescopagano.
La stessa atta di Conza, scrive Bruno, fiorente colonia romana declassata a municipio, devastata e saccheggiata, insieme alle sue fortezze antemurali di Pescopagano e Cairano, per aver accolto favorevolmente i Cartaginesi, da Fabio Massimo il Temporeggiatore («Cuncta-tor»), come tutti gli storici di Roma attestano (compsam incessit et depopulatus est = andò a Conza e la devastò), durante l'ultimo, disastroso terremoto, ha restituito reperti della tarda età villanoviana, l'ultimo periodo dell'età del ferro, consistenti in ceramiche, scodelle, tombe di incenerazione in urne con i resti racchiusi in doglie di terracotta o in custodie di tufo, segni tangibili di lontane epoche. Al di quà dell'Ofanto, -continua Bruno- arroccata sulle alture pietrose di Pescopagano, già abitava questa buona, ospitale, ma fierissima gente, pastori adusi a vivere sotto le stelle, all'addiaccio, neglistazzi («scariazzi»), insieme alle pecore.
L'origine e la geografia territoriale di Pescopagano deve essere pertanto collegata necessariamente alla storia e all'origine della vicina città di Conza o Coza (e i nomi antichi: Compsa, Cossa e Cosa) di origine greca. Il termine significa pulita, ornata. Questa origine è avvalorata anche dalla presenza del culto della Sibilla Cumea, mentre in epoca posteriore fu venerato Giove Bifronte. Difatti, anche Tito Livio ricorda un «Tempio di Giove Vicilino» nei pressi di Conza tra la Lucania e l'Irpinia.
Sotto il dominio di Roma, Pescopagano, seguì, naturalmente le traversie della città di Conza, di cui era il castello antimurale. La Rupe di Pescopagano ebbe un ruolo importante a favore del condottiero dei romani Quinto Fabio Massimo, il quale preferiva effettuare delle incursioni di sorpresa, anzicché affrontare Annibale in campo aperto.
Nei tempi antichi la vasta pianura (Piano di Campo) del territorio di Conza era difesa da formidabili rocche, disposte intorno a sé. Da una parte vi era la rocca di Carissa, Castello di Conza, Carimassus oggi Cairano, dove morì colpito da un sasso T. Annio Milone, mentre l'assediava, come testimoniano Plinio Velleio Patercolo e Plutarco;
ento-.dall'altra vi era la fortezza, che segna ancor oggi il confine tra la Lucania e l'Irpinia, chiamata Petra Pagana, oggi Pescopagano, fortificata dai Goti, in posizione dominante sull'alta valle dell'Ofanto. Rimane così ormai provato che T.A. Milone fu ucciso sotto le mura di Conza dell'Irpinia, «indifferentemente sotto quale dei due circostanti castelli». Secondo lo storico antico Agatia (536-582), nel 555 d.C., la rocca fu occupata dai Goti, scampati alla disfatta sul Volturno i quali ampliarono le fortificazioni e sostennero l'assedio delle truppe bizantine guidate da Narsete. Ma vinti, dopo aver resistito per tutto l'inverno, furono condotti prigionieri in Costantinopoli.
Dopo la dominazione bizantina il nostro territorio faceva parte del gastaldato di Conza sotto la dominazione Longobarda (568).
In quel periodo si ebbero le cruenti incursioni degli ungari e saraceni, anche perché i Longobardi non sono stati mai un popolo di navigatori.
In definitiva, si può dedurre, che la rocca fortificata di Pescopagano costituì un punto di appoggio per l'uno e l'altro degli eserciti in contesa. Questa prima denominazione di Petra Pagana, secondo Mons. Arcangelo Lupoli Arcivescovo di Conza, trova spiegazioni nel fatto che molto probabilmente, dopo la conversione al cristianesimo da parte degli abitanti, di Conza, i pagani rimasti si trasferirono sulla rocca detta pietra pagana.
Non sappiamo, comunque fino a che punto questa tesi dell'arcivescovo Lupoli, pronunziata nella relazione ad Limina nel 1825, può essere storicamente valida.
Infatti il Mancini, storico locale, osserva che le parole «pietra» e «pagana» non possono considerarsi separate, secondo una terminologia gotica, e che anche nel 1161 il Castrum aveva la solita e attuale denominazione latina di Petrapagana. È del parere che «pagano» deriva etimologicamente da «pagus», che significa villaggio o borgo abitato sulla roccia. Questa opinione trova conforto nella iscrizione postbizantina: provida progenies «incolit hoc saxum», in cui si mette in evidenza che la popolazione abita su di un pietroso monte.
Il Leo, storico medievista, sostiene che la parola «pagus» (pagano) fin dai tempi dei Longobardi indica una parte laterale del territorio della città precisamente quella parte che da questa veniva distaccata.
Ciò confermerebbe, secondo lo storico locale Luca Araneo, il distacco sulla parte «pagana», cioè della parte separata dal vastissimo territorio di Conza, avvenuto nel 1330 tramite la vendita di Sancia Regina a Mattia Gesualdo dei Normanni.
La versione secondo cui i cosiddetti rifugiati non vollero accettare la nuova religione di Cristo per adorare e onorare i falsi dei è completamente gratuita astorica -osserva Araneo- perché fino al 1330 non esisteva minimamente quel suffisso «pagana». Non a torto l'Araneo sostiene questa tesi se consideriamo che la religione cristiana si era diffusa, sin dall'inizio dell'era cristiana, in tutta la zona delle due rocche. Prove ne sono le determinazioni dei Comuni di S. Andrea, S. Martino, S. Antonino, nomi di Santi, e, soprattutto se si pensa che nel 1100 sorse il Monastero di S. Lorenzo e il popolo si sottopose alla decima.
Una religiosità -scrive Ebner- che spiega meglio l'adesione sempre più larga al cristianesimo, messaggio soprattutto delle classi inferiori della società. Sicché il grado di preminenza raggiunto dal Cristianesimo tra le anzidette classi sociali nel IV secolo, oltre a riflettersi sulla stessa lingua latina, finiva per scuotere in modo determinante la tradizione religiosa romana conservatrice, causando il trionfo del nuovo credo. E proprio nelle antiche poleis di Magna Grecia, che nel VI secolo a.C. avevano udito diffondersi da Velia la dottrina senofanea che, abbattendo l'antropomorfismo olimpico, affermava l'esistenza di un eis theos, un dio che tutto vede e tutto ode, unico, immutabile ed eterno; proprio in queste antiche poleis i discepoli degli apostoli avevano insediato sorveglianti (episkopoi) facendoli sedi di circoscrizioni amministrative (diocesis) e spirituali.
Ritornando al primo concetto, secondo il quale la storia di Pescopagano è direttamente collegata con quella della città di Conza, riportiamo l'importante versione di Francesco Paolo Laviano, storico locale, il quale osserva che i continui terremoti, le invasioni barbariche e la malaria ridussero considerevolmente la popolazione di Conza e venne meno così ogni sua grandezza e potenza: da 1.700 fuochi si passò a 260, pari a 1.300 abitanti, considerando 5 persone per ogni fuoco. Venne definita città desolata e scarsa di abitatori per l'aria insalubre.
I diversi Casali delle campagne, Tufara, S. Martino, S. Mauriello, S. Chirico e S. Andrea, che facevano cerchio alla rocca di Pescopagano, all'epoca dei Longobardi erano popolatissimi.
Naturalmente questi casali costituivano una frazione degli abitanti del «Castrum» o della «civitas».
All'epoca delle incursioni degli Ungheri e dei Saraceni, secolo IX e X, ogni città cercò riparo presso un castello per difendersi.
La città di Conza era troppo esposta alle incursioni dei barbari, e per cui la maggior parte degli abitanti emigrò -scrive Laviano-sui monti dove era più facile difendersi e in luogo più salubre.
Anche gli abitanti dei casali seguirono l'esempio di quelli di Conza e costituirono, insieme, il «Castrum Petra Paganae».
Il Laviano nel descrivere il vocabolo «Pesco» pensa, per similitudine, a «piesco» o «pescone», grossa pietra ancora in uso nel linguaggio comune del dialetto dei nostri Comuni: «u piscone».
Il Giustiniani definisce che la voce pesco (Pescopagano) «ne tempi di mezzo», volle indicare un castello edificato su di un monte.
Il vocabolo «petra», significa, nella bassa latinità, «nudo pro castello vel praesidio in petra seu rupe extructo»; e si disse dunque “pescopagano”, “Piescopagano” e “Petra Pagana”.
Lo stesso Laviano, infine, esclude nel modo più assoluto il significato di saraceno dal vocabolo pagano, dando la
versione di « pagis » per la divisione della popolazione nei tanti casali innanzi citati, distribuiti nel distretto della grande città di Conza.
È ormai storicamente dimostrato che quelli che vorrebbero far credere che il suffisso «pagano» sia stato aggiunto a Petra, per conservare il ricordo del culto avuto dagli abitanti per gli Dei Giove, Giano e per la Sibilla, è opinione errata per la documentata presenza di istituzioni religiose e la partecipazione del popolo a tutela e sostegno di tali istituzioni.
Del tutto diversa è la versione della leggenda popolare riportata dal Laviano in questi termini: «C'era una volta in quel Castello un ricco Signore chiamato Pietro Pagano, nemico di Dio e degli uomini; ma ecco che, verso la mezzanotte di un giorno di un anno che non sappiamo dirvi, la gallina cantò tre volte alla «masona»; e subitamente si udì uno strepito, un rombo sotterraneo; e più volte si scosse e tremò la terra. Allora rovinò il Castello e si videro quei dirupi che prima non c'erano. E così fu che il paese nostro, dal nome di quel Signore rimasto sepolto sotto quelle rovine, s'appellò Pescopagano o Petra Pagana ».
Questa storiella spiega così il significato delle due P dello stemma con una testa calva e tre monti. Le due P dicono Petra Pagana e i tre monti con la testa calva in cima sono le tre vette di Montecalvo, nude affatto di vegetazione, come indica lo stesso nome.
Guidati, dunque, come vuole la leggenda, -continua Laviano- da Giano Bifronte, e dalla Sibilla Cumana vennero gran parte ad abitare su questo sasso. Riporta la seguente iscrizione:
Provida progenies Cumee grata Sibille
Incolit hoc saxu Jano traducta bifronti Ex hac fatidica claro cognomine dicta
Porta Sibylia caput lucanum Basilicate.
I versi furono incisi su due pietre sotto l'arco detto, ancor oggi, « della Porta Sibilla ». I quattro esametri -osserva Mancini- e non già i due distici -perché il distico è una particolare unione prosodica: un esametro più un pentametro-, sono di ottima fattura classica e con un senso compiuto.
Ecco la traduzione dal latino: «Un'accorta (provvida) stirpe grata (cara) alla Sibilla Cumana abita su «questo sasso (Rocca) tradottavi (ossia guidata) da Giano Bifronte (dativo di agente). Da essa (cioè dalla Sibilla) fatidica (divinatrice dei fati umani) con chiara denominazione è detta Porta Sibilla, capo (è scritto: caput) dei lucani di Basilicata».
È ancora il Mancini, storico locale, che, muovendo da dati certi e con senso critico, interviene e reputa certo che Pescopagano -come aggregato edilizio ed etnico- esisteva alcuni secoli prima della nascita di Cristo e prima dell'anno 220 a.C., epoca dell'invasione di Annibale.
Egli, oltre alla pietra scoplita innanzi descritta, che fu piazzata in una nicchia sotto l'arco e raffigura Giano Bifronte, -il quale si credeva, in antico, che fosse progenitore della stirpe italica e avesse il dono di vedere nel passato e nel futuro- porta l'altra diretta testimonianza come prova irrefutabile dell'antichità del nostro sito, costituita da una edicola sacrificale (nicchia) su pietra viva con iscrizione dedicata a «Silvano Deo» da tale Lupulus Baebius e figlio, rinvenuta in contrada Lamia, più sotto dei piani di S. Vito.
Iscrizione dell'edicola rilevata dal Mancini:
"G. BAEBIUS LUPULUS ET G. BAEBIUS LOPUL.F. SILVANO DEO VOT. S.L.M."
questa vuol indicare più chiaramente: «Gaius BAEBIUS et Gaius BAEBIUS LUPULUS filius SILVANO DEO vota solverunt libentes merito.
In italiano: « Caio Bebio Lupolo e figlio Caio Bebio Lupolo volentieri assolsero (compirono i loro) voti al dio Silvano meritatamente (a buon diritto, cioè per grazia ricevuta)».
Quindi, la nicchia era dedicata al dio delle selve (silvano) il cui tempio era il bosco: « C. Baebius Lupulus et C. Baebius Lupulus F. / Silvano Deo Vot. S.L.M. ». La nuova traduzione: « Caio Bebio Lupulo e Caio Bebio Lupulo F. al dio Silvano fece voto volentieri a buon merito».
Tracce di altari pagani sono visibili ancor oggi in alcuni boschi della Lucania, in quanto i riti pagani venivano celebrati nei boschi ritenuti sacri. Questo viene confermato dal poeta latino Marco Anneo Lucano, il quale così descrive un bosco sacro distrutto da Giulio Cesare nella Gallia: «I rami intrecciati allontanando i raggi del giorno, chiudevano sotto lo spesso fogliame ombre che nascondevano un culto barbaro ed orrendi sacrifici. Gli altari e gli alberi gocciolavano di sangue umano».
Testimonianza, anche di quel periodo, vi è nel nome di alcuni luoghi come «Piano Marzano e Cupe di marzo che attestano il culto del dio, romano, della guerra.
Solo lo scrittore tedesco Mommsen, profondo studioso delle iscrizioni romane antiche, osò annoverare il tempietto di Silvano fra le cose «false o sospette» ma dedusse ciò da informazioni altrui, senza recarsi sul posto.
Dopo la morte del Mommsen, a smentire il sospetto di questi, intervenne una basilare circostanza risolutiva: una iscrizione con il nome di Baebius Lupulus (figlio) riportata sul tempietto di Silvano. Si tratta dai due figli alla madre, rinvenuta nella stessa contrada della prima dal prof. Michele Rubino che ebbe cura di salvare l'iscrizione.
L'iscrizione funeraria in latino con a fianco la traduzione:
"BAEBIUS LUPULUS ET M. BAEBIUS MAXIMUS E G. BAEBIO LUPOLO PET TREBIAE MAXIMILIAE MATRI BENE MERENTIBUS FEC. R."Caio Bebio Lupolo (quello stesso del tempietto di Silvano che insieme col padre glielo dedicarono) Marco Bebio Massimo, nati da Caio Bebio, (quello indicato sul Tempietto di Silvano) a Petronia (o Petilla o altro nome comindante con PET) Trebia Massimilia (loro) madre per benemerenze (di Lei) fecero a buon diritto (cioè perché l'aveva meritato).
A ragione il Mancini sostiene, alla luce di tali testimonianze storiche e archeologiche, che Pescopagano era già abitata da alcuni secoli avanti Cristo e che il territorio agricolo veniva coltivato in aziende rurali come è dimostrato da vari monumenti funerari e dal fatto che coloni risiedevano sul posto.
Anche il dizionario storico geografico delle antichità cita che sulla Porta Sibilla vi erano una statua a mezzo busto della Sibilla Cumana e una simile di Giano.
Da tutto questo -conclude il Mancini- si deve dedurre che il culto di Giano e di Silvano era remoto. Quindi il paese vanta origini antichissime, tanto che alcuni lo fanno edificato dai Sarceni, che vi si stanziarono nel corso del IX secolo. « Secondo altri pare che il paese -scrive il Claps- sia sorto ed accresciuto in seguito alla distruzione di due casali: San Filippo e Tufara e di altri quali: San Martino, S. Antonino, Montecalvo e Montemauro. Gli abitanti di questi casali poi, si sarebbero raccolti presso il castello di "Petra" e dato origine all'attuale città: Pescopagano».
Il paese è menzionato nel catalogo dei Baroni e, in una ordinanza del re Carlo d'Angiò del 1280, fu denominata « Castellum Petrae Paganae».
Il nome accenna adunque, seguendo anche il Racioppi, sia a fortificazioni del sec. IX, sia a posteriori stazioni di saraceni, «gens paganorum».
Il Giustiniani, inoltre, scrive: «in un luogo che chiamano 'Idolari' per esservisi ritrovati appunto diversi idoletti, spesso vi hanno ancora scavato dei marmi litterati poco o nulla curati, e fatti anzi quegli andare inconsideratamente a male. In uno fui assicurato si leggea Silvano Deo»... Ciò spiegherebbe sia il nome «pagano» che la sua antichità.
Infine vi è la versione secondo la quale l'antica Pietra Pagana, fortificata dai Goti, in posizione dominante, divenne fortilizio longobardo della Contea di Conza.
Nemmeno è da rigettare l'opinione che a questo castello avesse pur dato il nome la famiglia Pagana, che appar con più feudi dai Defetari Normanni, come più tardi avvenne di Nocera, la quale al dir del Borrelli «ad hac diem Nuceria Paganorum autonomastice nuncupatur».
Tutte queste versioni o tradizione, anche se non è storia, costituiscono una parte di essa. E, il ricordo dei fatti storici realmente accaduti, si disperdono con il tempo e, indi, in seguito, viene plasmato dalle storie popolari più ardite o dalle leggende.
Lo stemma di Pescopagano presenta su uno sfondo azzurro una torre castellata di 3 pezzi d'argento, fondata su un monte di 3 cime di verde e seguita da 2 P di oro. Secondo il Lacava al G.A. invece della torre vi sarebbe una testa coronata di vate (?) in marmo; ma egli stesso si affretta a soggiungere: «le due P possono indicare Petra Pagana oppure Pescus Paganus e il nome di Pesco nel medioevo indicava castello».
Secondo l'Errico vi è una testa calva cinta d'un serto, due P laterali e tre colline sottostanti alla testa stessa.
Secondo il Laviano le due P dicono Petra Pagana e i tre monti con la testa calva in cima, sono le tre vette di Montecalvo, nude di vegetazione, come indica lo stesso nome.
Infine vi è la versione del Bozza che dice: «Lo stemma ha tre monti di roccia, sui quali una testa di marmo coronata d'alloro, ai lati di essa due P in campo celeste».
In conclusione, secondo le nostre considerazioni sulla definizione del toponimo «Petra Pagana» (Pescopagano), riportato nell'era pagana, osserviamo che è proprio il cristianesimo a segnare la grande linea di demarcazione fra il mondo antico e moderno, cristianesimo che rivestì le nuove forme di vita religiosa delle nostre poleis, e non fu un'alternativa dai culti popolari del mondo mediterraneo.
Perciò se è vero che nel IV e V secolo a.C. Petra Pagana adorò la Sibilla Cumana e dopo, in epoca romana. Giano Bifronte, è pur certo che seppe, in seguito, democratizzare il rapporto col sacro nel tentativo di svincolarsi dal regime schiavistico e nello spirito di opposizione all'aristocratica religione dei ceti dominanti.
Il passaggio, cioè, dal culto pagano degli dei al cristianesimo, fu lento ma continuo, per l'innato conservatorismo dei villaggi e per la tenace resistenza dei contadini ad ogni cambiamento del loro modo di vita tradizionale.
Furono queste le ragioni per cui la Chiesa incontrava nelle zone rurali di Lucania, perfino nei secoli VI e VII, «grandi difficoltà nel sopprimere gli antichi riti con cui i contadini, da tempo immemorabili, scongiuravano le pestilenze e incrementavano la fertilità dei graggi e dei campi».
E, secondo il Bronzini, su questa via culti primitivi e nuova religione, il cui rapporto storico e ideologico non va fatto coincidere « tout court» col rapporto di successione fra paganesimo ufficiale e cristianesimo, trovarono molti punti d'incontro (segretezza e magismo dei rituali) e motivi di convivenza, «dovuti all'empito rivoluzionario e alla predicazione
di una seconda pietra funeraria dedicata
popolare della teoria cristiana, in sintonia con lo stato d'animo latente delle masse e con le loro attese di libertà e di riscatto» e le concessioni fatte dalla Chiesa sul piano della politica culturale, nei primissimi tempi.
È da rilevare, infatti, che, nei primi secoli del cristianesimo, se nelle città l'abbattimento totale dei templi degli dei era auspicato da tutte le nuove autorità cristiane, nei casali lontani vi fu una certa tolleranza per le antiche costumanze e molti templi pagani divennero in realtà luoghi di riunione per nuovi adepti, anche probabilmente per la mancanza di mezzi adeguati alla costruzione di nuovi edifici.
Perciò in definitiva, tenendo nel debito conto le varie testimonianze innanzi citate e dimostrate, Pescopagano non fu sede di una comunità etnica pagana all'epoca della costituzione del primo villaggio, e non rifiutò di abbracciare la nuova religione cristiana, perché già la popolazione aveva sposato la fede cristiana, anche se in alcune zone rurali ancora permaneva qualche elemento di rituali tradizionali.
Quanti elementi, però, erano volti al bene della comunità, e «non vengono più considerati atti criminosi (non si minaccia più la pena capitale a coloro che portarono su di se, per esempio, gli amuleti contro la malaria, come succedeva sotto Caracalla, prima di Costantino, e sotto Costanzo II, dopo di lui) e nelle zone agricole non è nemmeno considerato illegale scongiurare i temporali o altri fenomeni che possono danneggiare il raccolto ». Altri sostengono che in questa zona il cristianesimo si diffuse nel I secolo. Ed infine non dimentichiamo che da un rescritto di Costantino al «corrector Lucania et Brittiorum» -scrive Ebner- è possibile desumere l'esistenza di chiese già organizzate in Lucania il 21 ottobre del 319. Inoltre papa Gelasio I inviava nel 494 una lettera ai vescovi della Lucania, di cui conosciamo i nomi di Giuliano di Blanda (Maratea), Sabino di Marcelliana e forse Agnello di Velia del V secolo, rustico di Bussento, Romano (?) di Blanda, Latino di Marcelliana e Felice di Paestum del VI.
E i monaci d'Oriente, dal VI al XI secolo, sfuggiti alla furia iconoclastica, vennero proprio nella Lucania che, per le sue caratteristiche fisiche, si prestava ad essere meta ideale e rifugio sicuro dei religiosi e delle loro famiglie, provenienti anche dai Balcani e dalla Sicilia.
Da documenti degli archivi diocesani si apprende che Conza ebbe il suo primo Vescovo nell'ottavo secolo, precisamente nell'anno 743 d.C. Ad esso vennero aggregate, spiritualmente, le popolazioni appartenenti alle tre provincie di Basilicata (con il Comune di Pescopagano), il Principato Citra e il Principato Ultra.
Alcuni secoli dopo, l'anno 1008 la diocesi di Conza venne trasformata in sede Arcivescovile alle cui dipendenze furono sottoposti i Vescovi di Muro Lucano, Lacedonia, Monteverde, S. Angelo dei Lombardi, Nusco e Bisaccia.
Melfi invece continuò a dipendere direttamente da Roma, Marsico da Salerno, Montepeloso (Irsina) da Gravina, mentre alcuni paesi come Lagonegro, Lauria, Rivello e Trecchina, continuarono ad essere sotto la giurisdizione dei Vescovi di Pollicastro; Maratea da quelli di Cassano Jonico.
A queste diocesi se ne aggiunsero altre. Così il messaggio cristiano si diffondeva da Potenza, Grumento, Venosa, Anglona, Tursi, Tricarico e Acerenza, che, nella seconda metà del XI secolo, venne elevata a sede metropolitana, ed infine, da Conza e, da Pescopagano.
Secondo la testimonianza di validi documenti ecclesiali Pescopagano nell'anno mille aveva già le sue otto Chiese in piena efficienza di culto.
Noi siamo convinti che Pescopagano sia stata fonte di cristianesimo perché nell'età moderna non abbiamo mai registrato nel luogo presenze paganeggianti, culti magici di chiara origine precristiana o di orientamento extracattolico, anche se la comunità cattolica pescopaganese è stata pure afflitta, nel medioevo in particolare, da una condizione di miseria e sottosviluppo antichi, determinati da una lunga storia sociale di isolamento e abbandono nell'ambito della storiografia regionale.